martedì 27 aprile 2010

LO SGUARDO DEGLI ULTIMI

Questa è una storia di volti e di sguardi. Il nostro sguardo; lo sguardo di chi sembra interrogarci e quello di chi quotidianamente tutto mostra ma nulla è in grado, o vuole, “vedere”. Questo non è né vuole essere un reportage. Almeno nel senso classico in cui viene in genere definito.

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Quelli che presento sono frammenti estratti dalla realtà nel tentativo di "smascheramento", un tentativo di intensificare la percezione attraverso dettagli, attraverso uno sguardo "straniato", inteso come scoperta, stupore, smascheramento, indignazione.

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Attraverso i loro sguardi cerco di fissare schegge di realtà emarginata, oppressa ,violentata.
La fotografia come testimonianza del saccheggio, del genocidio e delle attività predatorie di una piccola minoranza armata e benedetta sulla gran parte dell'umanità.
Alla patinata fotografia da persuasori occulti, a difesa della produzione e della riproduzione del santuario della merce, io propongo una fotografia delle realtà violentate. Descrivere attraverso le immagini dei loro sguardi il volto offeso degli ultimi.

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Il volto dell'uomo sembra esprimere un ultimo disperato tentativo di resistenza, forse perché, come afferma Calvino, un volto è il prodotto di una società e della sua storia: " emana per l'ultima volta l’aura. È questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile bellezza" (Walter Benjamin)

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Ma la società è piuttosto diffidente nei confronti di immagini, che possono essere a volte troppo destabilizzanti. Non a caso nel 1934 i nazisti censurarono il fotografo Sander ed i suo “Volti del tempo" perché le sue immagini descrivevano volti troppo diversi dall'archetipo nazista della razza ariana. Per non parlare delle foto di Kertsèz che, invece, furono rifiutate dai redattori di Live, nel 1937, perché affermarono che erano immagini che "parlavano troppo". Facevano meditare e, quindi, troppo pericolose.

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L’immagine fotografica ha due insolite qualità: è mondo rappresentato e rappresentazione del mondo. E’ l’oggetto stesso, o meglio la sua rappresentazione analogico/digitale, e allo stesso tempo può essere linguaggio.

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Ma rappresentazione non significa semplice restituzione, bensì scoperta. "... meno che mai una semplice restituzione della realtà dice qualcosa sopra la realtà” (Bertold Brecht). A volte, scavando tra le pieghe della realtà la fotografia cerca di rappresentare ciò che non possiamo vedere, ciò che, soprattutto attraverso un sguardo frettoloso, non sempre risulta immediatamente percepibile, ricordandoci sempre che, come affermava Oscar Wilde, "il mistero del mondo è il visibile, non l'invisibile".

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L'osservazione rallentata offerta dalla fotografia ci consente quindi una visione più dilatata e più ricca; ci svela che i luoghi esistono solo in relazione di chi li abita, li attraversa, li osserva. Questo sguardo rallentato può opporsi allo sguardo ubiquitario e mondializzato che nulla vede e che produce solo indifferenza e invisibilità.

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Le immagini a ciclo continuo generano sguardi vuoti; non hanno più un occhio che seleziona o sceglie; sono sguardi senza emozioni che non hanno più nessuna storia da raccontare, perchè uno sguardo senza emozione non è in grado di “raccontare”; possono solo essere immagini "scippate" di realtà violentate; perché come giustamente affermava Cartier-Bresson "... è dal cuore che viene la decisione di cogliere un'immagine; e lui che grida sì, sì, sì".

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Le immagini raccolte in questo libro, realizzate in varie regioni del Centro e del Sud-America, sono un modesto tentativo di dare voce e visibilità a quella parte di umanità quasi sempre esclusa e dimenticata, costituita soprattutto dalle popolazioni indigene.

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In molti di questi scatti i soggetti ci guardano dritti negli occhi, il loro sguardo sembra interrogarci, ci pongono domande alle quali non sappiamo rispondere. O, forse, non ci sono più risposte da dare. Certamente non sono immagini "neutrali", ne pretendono di esserlo, e dal momento che non esistono immagini realmente "obiettive" ciò che esprimono è una realtà attraverso il mio modo di vederla e, soprattutto, di viverla.
Una continua ricerca che ci permetta di guardare "oltre", attraverso il superamento del confine che delimita la codificazione quotidiana del nostro “vedere”.

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Una codificazione definita essenzialmente attraverso la rappresentazione simbolica della merce e delle sue ideologie. "L'uomo tende ad addormentarsi nella propria normalità, si dimentica di ribellarsi, perde l'abitudine di giudicarsi, non sa chiedersi chi è. E’ allora che va creato, artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti. I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica" (Pier Paolo Pasolini).

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Non ho certamente la pretesa di considerarmi un poeta, e probabilmente neanche un artista. Anche perché ritengo la mia una estetica "anti/artistica" che affonda le sue radici nelle riflessioni sull'arte che a partire dal Surrealismo, passando per Walter Benjamin, hanno caratterizzato oltre mezzo secolo di storia. Un’arte post-auratica, intendendo per “aura”, l’”hic et nunc” dell'opera d'arte, la sua "esistenza unica" e "irripetibile" (Walter Benjamin).

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Il mio è solo un tentativo di coniugare sguardo fotografico e antropologico, estetico e sociale, politico ed emotivo, convinto che arte, emozione e scienza non devono essere necessariamente separate, anzi che possano e debbano convivere. Ma è, allo stesso tempo, quella che potrei definire una fotografia dell’inquietudine, poiché essere un fotografo che ritrae volti è probabilmente la mia maniera di essere solo e scoprire se stessi, dato che, come disse il grande fotografo messicano Manuel Alvarez Bravo, "Il pittore esce e cerca il soggetto del suo lavoro; il fotografo va alla ricerca di se stesso e non sa mai ciò che troverà" perché in fondo, nel profondo mi ostino a coltivare "l'intima soddisfazione che gli occhi si possano aprire per sempre" (Bernard Rosenthal).

Fonte

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